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Chiudiamo i social ai più giovani. Una ragazzina che ne accoltella un’altra non può diventare uno spettacolo - Intervento di Guido Scorza

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Chiudiamo i social ai più giovani. Una ragazzina che ne accoltella un’altra non può diventare uno spettacolo
È indiscutibilmente tardi, ma meglio levare i social ai ragazzi oggi piuttosto che doverlo fare domani in condizioni di emergenza davanti alla prossima tragedia finita peggio di quella della quale stiamo parlando
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(HuffPost, 24 marzo 2024)

Se due ragazzine di 14 e 15 anni si danno appuntamento, in pieno giorno, in mezzo a una strada per sfidarsi su un ring d’asfalto improvvisato e se una delle due, nel secondo round, si fa passare un coltello da una terza coetanea e accoltella la sfidante mandandola in ospedale in condizioni critiche la colpa non è dei social o, almeno, non è dei social più di quanto non sia di un sistema mediatico che, da ben prima dei social, ha promosso la violenza, proposto modelli negativi e derubricato l’inciviltà delle persone a fenomeno connaturato alla società.

Ma se attorno alle due ragazzine impegnate in un duello all’arma bianca si crea un cerchio di spettatori adolescenti che anziché invitarle a fermarsi e provare a dividerle impugnano gli smartphone e facendosi largo tra le teste di chi occupa una posizione migliore si impegnano in riprese da oscar, talvolta avventurandosi in telecronache degne del grande schermo e se prima ancora che la ragazzina accoltellata arrivi in ambulanza e si sappia se è viva o morta i video in questione finiscono sui social a caccia di like, i social non possono essere assolti ancorché non siano certamente gli unici responsabili.

Se quei social non ci fossero stati, se quei ragazzini incapaci di comprenderne le dinamiche di funzionamento, la potenza di fuoco mediatico e le trappole dell’invito a condividere ciò che non andrebbe neppure ripreso fossero stati bloccati sulla pagina di accesso di strumenti meravigliosi ma non disegnati e non progettati per diventare il naturale ambito di vita di centinaia di milioni di bambini e adolescenti, se quei video girati dai loro smartphone fossero stati condannati a rimanerne prigionieri, forse qualcuno avrebbe lasciato che l’umanità avesse la meglio sulla macabra e incivile folle corsa a riprendere tutto per essere i primi a urlare nell’universo social di aver preso parte a quel rituale selvaggio e qualcuno sarebbe riuscito a evitare che una loro compagna di scuola, una ragazzina di quattordici anni, finisse all’ospedale accoltellata da un’altra ragazzina di quindici.

Ma i social ci sono e per colpa di un enorme malinteso culturale continuiamo a ritenere che mentre è troppo pericoloso lasciare che un ragazzino guidi un motorino o un’automobile è assolutamente normale che li utilizzi, a prescindere dalla sua età. Non è così e non perché i social rappresentino un inferno digitale, siano in sé pericolosi o siano portatori di chissà quale disvalore ma, semplicemente, perché, a dispetto della loro apparente semplicità e leggerezza di impiego con la quale hanno conquistato adulti e bambini, sono servizi straordinariamente complessi disegnati e progettati con un unico obiettivo reale: conquistare il tempo e l’attenzione del maggior numero possibile di persone allo scopo dichiarato di raccogliere dati personali dai quali estrarre informazioni preziosissime sui mercati globali della pubblicità e non solo della pubblicità.

E, di conseguenza, gli algoritmi e le interfacce che ne rappresentano anima e corpo creano inesorabilmente dipendenza, giocano sulle nostre debolezze per ammaliarci, ci fanno letteralmente prigionieri, ci invitano a condividere sempre di più e ci propongono quotidianamente frammenti di gioie e dolori reali di miliardi di persone come se si trattasse di irresistibili contenuti di intrattenimento. Sono le nostre vite che sui social vanno in scena e i loro algoritmi trasformano in spettacolo persino un dramma dell’inciviltà e della disumanità come quello di una ragazzina che ne accoltella un’altra quasi a morte e ricompensano chi ne pubblica le immagini cruente e le urla selvagge con la moneta effimera della popolarità, invitando contemporaneamente miliardi di utenti alla loro visione.

Poi, per carità, quando si passa il segno e c’è il rischio che taluni contenuti danneggino la reputazione delle società commerciali che li controllano o, comunque, ne espongano a un rischio eccessivo il valore delle azioni, intervengono a bloccarne la circolazione. Ma, in genere, a quel punto, è troppo tardi. Il messaggio è passato, l’idea che tutto possa essere condiviso con l’intera umanità è passata e non resta che attendere un nuovo episodio di vita reale da trasformare in spettacolo erodendo completamente il confine tra la realtà talvolta anche drammatica e dolorosa e la finzione cinematografica.

Dobbiamo chiudere i social ai più giovani, dobbiamo smettere di considerarla un’idea neo-luddista solo perché ci siamo accorti tardi della necessità di farlo quando ormai avevamo imparato a considerare normale accompagnarci per mano i nostri figli e, anzi, considerare i social la loro baby sitter digitale. È indiscutibilmente tardi ma meglio farlo oggi che doverlo fare domani in condizioni di emergenza davanti alla prossima tragedia finita peggio di quella della quale stiamo parlando.