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Internet non è gratis. E ora che si fa? - Intervento di Guido Scorza

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Internet non è gratis. E ora che si fa?
Affinché quella congerie indistinta di piattaforme, app e servizi digitali funzioni come la conosciamo, qualcuno deve pagarla. La domanda è: chi e come?
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(HuffPost, 17 gennaio 2023)

Sta facendo discutere la decisione con la quale lo scorso 31 dicembre il Garante irlandese per la protezione dei dati personali ha condannato Meta a una sanzione da 390 milioni di euro per aver considerato il trattamento dei dati personali degli utenti strumentale alla diffusione di pubblicità targettizzata un elemento essenziale del contratto in essere con gli utenti e non aver loro così consentito di scegliere se lasciarsi o meno profilare per finalità di marketing.

Lo stesso Garante irlandese – che, per la verità, era di tutt’altro avviso e sul punto si è piegato alle richieste del comitato dei garanti europei – ha ordinato a Meta di adeguarsi alla propria decisione entro i prossimi tre mesi.

La palla, ora, quindi, passa a Meta.

Ma a prescindere dai tecnicismi giuridici sottesi alla decisione e dalle scelte prossime venture di Meta, la vicenda mette a nudo il Re e, anzi, i Re di Internet e impone all’attenzione dell’opinione pubblica globale una questione ormai divenuta improcrastinabile: Internet – o quella congerie indistinta di piattaforme, app e servizi digitali che oggi chiamiamo Internet – non è gratis e perché funzioni come la conosciamo qualcuno deve pagarla. Chi e come?

La risposta alla prima delle due domande è più facile: come per qualsiasi altro servizio, a pagare tocca agli utenti e consumatori anche se, sin qui, spesso e molti, hanno avuto la percezione che nel caso di app, contenuti e servizi digitali, tutto fosse gratis per tutto.

La risposta alla seconda domanda è decisamente più difficile.

Con poche eccezioni, sin qui, contenuti e servizi digitali sono stati largamente “pagati” attraverso la pubblicità.

Nella dimensione digitale, tuttavia, l’unica pubblicità che vale abbastanza è quella che con un brutto anglicismo si definisce “targettizzata” ovvero disegnata, scritta e distribuita su misura sulla base di interessi, gusti e propensioni di chi la riceve.

Perché questa pubblicità funzioni, naturalmente, è necessario, come si dice in gergo, profilare i destinatari, conoscerne abitudini, preferenze e inclinazioni e per farlo è necessario trattare quantità enormi di loro dati personali.

L’unico altro modello di business possibile tra quelli sin qui adottati nel firmamento digitale è il c.d. pay per use: paghi, in denaro, e usi il servizio, accedi al contenuto, guardi il video o leggi il giornale.

In un modo o nell’altro, quindi, alla fine sono, come si diceva, sempre gli utenti a pagare e, in fondo, è giusto così.

E d’altra parte, è così da sempre.

C’è, tuttavia, una differenza rilevante tra ieri e oggi.

Ieri era naturale pagare per il giornale che compravamo in edicola, per l’elettricità, l’acqua o il gas, per percorrere una tratta autostradale e fruire di qualsiasi altro servizio più o meno rilevante nella nostra vita.

Poi è arrivato Internet e i suoi piccoli e grandi protagonisti hanno voluto consegnarci l’illusione che pagare non servisse più in modo da convincere miliardi di persone a iniziare a utilizzare una serie vastissima di servizi che, verosimilmente, non avrebbe iniziato a utilizzare se le fosse stato chiesto di pagare un abbonamento a ogni click: uno per leggere il giornale, uno per guardare video su questa o quella piattaforma, uno per chiacchierare con gli amici, uno per pubblicare contenuti di ogni genere, uno per trovare informazioni online, uno per identificare la strada più veloce per andare da un posto all’altro, uno per trovare l’anima gemella, uno per giocare e chi più ne ha più ne metta.

È accaduto così che ci siamo, più o meno tutti, persuasi che Internet potesse essere gratis per davvero.

Naturalmente niente, Internet inclusa, è mai gratis e, come recita una frase ormai divenuta celebre: quando è gratis – o, almeno, quando sembra gratis – il prodotto sei tu.

E così è sempre stato.

Abbiamo pagato, senza farci caso, senza accorgercene, senza saperlo o, almeno, senza capirne le implicazioni lasciando che una serie più o meno ampia di soggetti trattasse i nostri dati personali, profilasse i nostri interessi e imparasse a conoscerci sempre meglio e così facendo si ponesse nella condizione di vendere, appunto, pubblicità targettizzata.

Quello che oggi sta accadendo è che le regole per la profilazione diventano progressivamente più rigide, le Autorità per la protezione dei dati personali le applicano con crescente rigore e la stessa opinione pubblica, anche se molto timidamente, inizia a maturare più consapevolezza.

Senza dire che alcune delle big tech, ormai da qualche anno, hanno cominciato a limitare le chance, per i fornitori di servizi digitali terzi, di profilare e conoscere gli utenti così da spingerli a servirsi dei propri canali pubblicitari.

Tutto questo sta progressivamente mettendo in crisi il modello di business di Internet.

Basta guardare alla vicenda Meta appunto ma, senza andare tanto lontano, anche a quella che ha avuto per protagonisti i grandi editori di giornali che, nelle scorse settimane, si sono ritrovati a chiedere agli utenti di scegliere se lasciarsi profilare o abbonarsi per continuare a sfogliare pagine digitali che sino al giorno prima avevano sfogliato gratis.

Insomma, Internet si è rotta o, almeno, si sta rompendo e “aggiustarla” potrebbe non essere facile.

Progettare, sviluppare, produrre e fornire servizi e contenuti digitali richiede investimenti enormi e, naturalmente, chi li sostiene ha il sacrosanto diritto di fare impresa con contenuti e servizi.

Ma, al tempo stesso, l’accumulo di una quantità di conoscenza su milioni - e, in qualche caso, miliardi - di persone che consente a chi vi procede di conoscerci meglio di quanto ciascuno conosca sé stesso, rappresenta un rischio enorme per i diritti e le libertà individuali così come per quelli collettivi e non può essere completamente abbandonato alle dinamiche e alle leggi del mercato, troppo spesso, sin qui, poco trasparenti e ancor meno rispettose delle scelte individuali.

Che fare, dunque?

Il dibattito è aperto perché quel che è certo è che Internet non è gratis e non può fare a meno di un modello di business.