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L'intelligenza artificiale non sia solo un affare per paperoni - Intervento di Guido Scorza

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L'intelligenza artificiale non sia solo un affare per paperoni
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(MF, 10 gennaio 2023)

Varrebbe 29 miliardi di dollari, secondo il Wall Street Journal, Open AI, la società fondata da Elon Musk nella quale hanno già investito in tanti nell'universo delle big tech, dal cofondatore di Paypal Peter Thiel al presidente dell'acceleratore AI startup Y Combinator Sam Altman a Amazon Web Services a Microsoft, Si tratta, tanto per intenderci, della società che sta dietro, tra l'altro, a Chat Gpt3, il chatbot diversamente intelligente che, da qualche settimana. spopola in tutto il mondo e che sta mostrando i muscoli del suo cervello artificiale, esibendo il suo eclettico e multiforme ingegno. Ventinove miliardi di dollari sono ancora poca cosa rispetto al valore multi miliardario, con almeno un paio di zeri in più, delle big tech più quotate ma va tenuto presente che la società non ha ancora neppure identificato un suo modello di business. Il suo valore, prima ancora che raggiunga il nastro di partenza, suggerisce di affrontare il prima possibile una questione che rischia, altrimenti, di sfuggirci di mano e che non riguarda solo Open Al. Quanto sarà democratica l'intelligenza artificiale? Quanto sarà per tutti? Quanto rappresenterà una tecnologia prò-concorrenziale o, quanto, al contrario. minaccia di rendere i mercati sempre più asfittici? Che impatto avrà, insomma, sulla nostra società nella dimensione economica, culturale, sociale e politica?

Perché l'AI, sin qui, sembra un affare per ricchi, pochi ricchi, anzi, ricchissimi.  Dati e denari, chi ne ha di più, va più veloce e arriva per ora più lontano nella nuova corsa all'oro delle soluzioni diversamente intelligenti, E questo, considerate le straordinarie potenzialità dell'intelligenza artificiale e la loro trasversalità negli ambiti più disparati della nostra vita rischia di essere un problema più serio di quello rappresentato già oggi dagli oligopoli digitali. Che solo in pochi possano detenere il controllo pressoché assoluto su soluzioni capaci di fare la differenza nel mondo della ricerca medica e scientifica in quello dell'informazione o sui mercati finanziari o disporre di capacità predittive che, oggi, farebbero ancora gridare i più al miracolo o alla magia è, almeno in prospettiva, un problema dal quale non possiamo rischiare di farci prendere in contropiede, come accaduto con Internet. Concentrazioni di potere economico, mediatico, culturale e politico così rilevanti e capaci di produrre un impatto tanto pervasivo vanno governate per garantire che non producano discriminazioni, limitazioni insostenibili della concorrenza, forme di manipolazione culturale di massa, neocolonialismi e fenomeni di privatizzazione degli Stati.

Ma come si governa un fenomeno di questo genere? Conviene partire dalle poche certezze acquisite in un trentennio di esercizi di governo dell'Internet commerciale. La prima: il mercato non è un buon regolatore, non ci si può ispirare a una politica del laissez-faire. La seconda: la dimensione naturale di regolamentazione di fenomeni di questo genere è quella sovranazionale, sia perché siamo davanti a fenomeni che nascono globali, sia perché una gcopardizzazione delle regole creerebbe asimmetrie pericolose con impatti geopolitici enormi come dealtra parte accaduto con Internet. Difficile identificare altre certezze e, quindi, difficile identificare con certezza scientifica vaccini capaci di prevenire l'esplosione di pandemie digitali e di derive tecno-finanziarie che producano - o, forse, meglio, rafforzino - oligopoli non contendibili come molti di quelli che già contraddistinguono l'ecosistema digitale. E, però, probabilmente, alcuni esercizi di riflessione vanno avviati senza ritardo. Si potrebbe, ad esempio, pensare a identificare alcuni ambiti - il pensiero corre alla ricerca medica e scientifica - nell'ambito dei quali introdurre stringenti meccanismi di "licenza obbligatoria" dell'uso di dati e algoritmi a condizioni determinate dallo Stato, condizioni capaci di contemperare l'esigenza che il merito, la competizione e la concorrenza siano garantiti ma che, al tempo stesso, nessuno possa ritrovarsi "padrone" assoluto di tecnologie capaci di tare la differenza tra a vita e la morte per miliardi di persone.

E forse - come in parte si sta già facendo nei lavori preparatori della nuova disciplina europea sull'intelligenza artificiale - si potrebbe anche pensare a divieti assoluti di applicazione di soluzioni di intelligenza artificiale: il settore militare ad esempio specie in una stagione della vita del mondo nel quale le guerre sono tornate a entrare prepotentemente nel nostro quotidiano, ma anche quello della produzione e gestione dell'informazione a maggior impatto economico-politico con conseguente rischio di inarrestabile manipolazione della coscienza collettiva e dell'opinione pubblica o, ancora, al settore della giustizia predittiva. Ma si tratta solo di provocazioni per accendere un dibattito che i leader dell'industria e dei mercati digitali tendono a spegnere, consapevoli del fatto che più il decisore pubblico ritarda ne l'intervenire, più le regole finiranno con l'essere dettate -come accaduto per Internet- proprio da loro, a colpi di tecnologie e condizioni generali di contratto.