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In difesa dell'anonimato online. I leoni da tastiera non si battono eliminandolo - Intervento di Guido Scorza

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In difesa dell'anonimato online. I leoni da tastiera non si battono eliminandolo
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(HuffPost, 11 dicembre 2022)

La questione si ripropone ciclicamente e ciclicamente c’è il rischio che qualcuno si innamori di una medicina enormemente peggiore del male che si vuole curare. Dopo le recenti minacce di morte all’indirizzo del Presidente del Consiglio e di sua figlia via Twitter da più parti si è tornato a chiedere di eliminare l’anonimato online e obbligare chiunque voglia condividere un contenuto via internet a identificarsi, magari a mezzo SPID, l’identità digitale nazionale.

Chi propone l’idea sostiene che così facendo si disincentiverebbero i “leoni da tastiera” dal pubblicare certi contenuti o, almeno, ci si assicurerebbe di poterli assicurare alla giustizia più rapidamente. Vale la pena dire subito che l’occasione del rinvigorimento di un dibattito che va avanti da vent’anni è, almeno, quella sbagliata, considerata che l’autore delle minacce a Giorgia Meloni è stato identificato in una manciata di ore e dovrà ora vedersela con la giustizia. Ma il punto non è questo.

Il punto è che la soluzione che si propone equivale a rinunciare a una libertà certa in cambio di una mera fragile e claudicante incerta aspettativa di contenimento di un fenomeno planetario di matrice culturale che rappresenta, da sempre, semplicemente, l’altra faccia della libertà di parola ovvero quella del suo abuso.

In questa prospettiva vale, innanzitutto, la pena di ricordare che non c’è nessuna relazione scientificamente provata tra il c.d. anonimato online – che non è poi, almeno nella più parte dei casi, un vero anonimato perché, nella dimensione digitale, generalmente, siamo tutti più identificabili di quanto riteniamo – e il fenomeno del c.d. hate speech. Spesso, anzi, gli odiatori seriali amano metterci la faccia o, almeno, non si preoccupano di nasconderla.

Ma se anche, in un certo numero di casi, una relazione del genere dovesse esserci non ci si può dimenticare che l’anonimato è strumento di libertà perché, in sua assenza, in centinaia di migliaia, probabilmente milioni, di occasioni si rinuncerebbe a dire ciò che si pensa, si rinuncerebbe a denunciare fatti e episodi di malcostume o addirittura di reato, si rinuncerebbe a essere chi si è per davvero per paura delle conseguenze perché, purtroppo, viviamo in una società imperfetta nella quale benché ci si riconosca la libertà di parola, poi troppo spesso esercitarla ha un prezzo che i più non sono in grado di pagare in termini di discriminazioni sociali ai quali si va incontro o magari di perdita di lavoro o di autentiche persecuzioni.

In genere davanti a questo genere di obiezione si risponde che non è il caso del nostro Paese perché il nostro è un regime democratico, perché da noi chiunque può dire quello che pensa senza alcuna conseguenza almeno fino a quando non violi i diritti altrui, perché da noi non c’è ragione per garantire a chicchessia il “diritto all’anonimato” come strumento di libertà.

Naturalmente si tratta di una considerazione superficiale, inesatta, smentita dalla cronaca e dalla storia che sono piene zeppe di episodi noti e meno noti, gravi, gravissimi e meno gravi, nei quali persone hanno pagato, proprio in Italia, a caro prezzo, a ver denunciato un abuso o un reato, aver detto quello che pensavano,  aver raccontato una storia che, magari, ha semplicemente messo in cattiva luce il potente di turno che si è poi vendicato a modo suo, magari facendo terra bruciata attorno a chi aveva osato raccontare una verità per lui scomoda.

Ma, anche a prescindere da questo, l’eccezione del “non in Italia”, non conduce alla conclusione alla quale vorrebbe concludere perché le regole, specie quando hanno a che fare con diritti fondamentali come la libertà di parola, non si scrivono e approvano pensando al passato o al presente ma guardando al futuro e perché siano in grado di garantire e assicurare alle persone diritti e libertà anche quando il contesto cambiasse e il loro esercizio dovesse diventare più difficile.

Senza dire – e lo scriveva un giurista illuminato e moschettiere dei diritti fondamentali come Luis Brandeis già nei primi anni del ‘900 – che “l'esperienza dovrebbe insegnarci a preoccuparci di più di proteggere la libertà quando un governo persegue fini benefici. Gli uomini sono naturalmente in allerta per respingere l'invasione della loro libertà da parte di governanti malvagi. I maggiori pericoli per la libertà risiedono nell'azione insidiosa di governi ben intenzionati ma incapaci di comprendere le conseguenze delle proprie azioni sulle libertà e sui diritti fondamentali”. Insomma, non solo eliminando l’anonimato non cancelleremmo l’odio online ma rischieremmo davvero di comprimere una libertà che è garanzia di decine di altri diritti e libertà oltre la soglia del democraticamente sostenibile.

C’è quindi da augurarsi che nessuno si innamori di un’idea tanto sciocca quanto inutile specie in una dimensione digitale che è globale e nella quale anche se imponessimo a sessanta milioni di italiani di mostrare la carta di identità per fare gli auguri via social a un amico, resterebbe comunque il problema di cinque miliardi di persone che potrebbero dire e fare di tutto dal resto del mondo e quello di chi, pur fisicamente nel nostro Paese, fingerebbe tecnologicamente di collegarsi da chissà dove per non esibire il suo documento di identità e dire e fare quello che vuole online.