g-docweb-display Portlet

Musk e Twitter: non è normale che arriva un nuovo ferroviere e il treno cambia strada - Intervento di Guido Scorza

Stampa Stampa Stampa
PDF Trasforma contenuto in PDF

Musk e Twitter: non è normale che arriva un nuovo ferroviere e il treno cambia strada
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(HuffPost, 2 novembre 2022)

È arrivato il momento che lo Stato si riappropri del ruolo che gli compete nel governo dell’informazione anche nella dimensione digitale: sta a Parlamenti e Governi stabilire cosa si può dire e cosa non si può dire anche online e sta a Giudici e Autorità indipendenti garantire che queste regole vengano rispettate

Twitter, assieme a una manciata di altre piattaforme social e di condivisione di contenuti, è, ormai, parte integrante della famosa – e famigerata per qualcuno – agorà digitale: un luogo-non-luogo nel quale miliardi di persone condividono informazioni, notizie, pensieri e opinioni, uno spazio di confronto e, talvolta, di scontro attorno al quale, ormai, vive la nostra società, un’infrastruttura essenziale all’esistenza stessa di cultura, economia e democrazia.

Se questa agorà cambia forma, cambia regole, cambia dinamiche di funzionamento l’impatto sull’intera società globale è inevitabile, ineludibile, indiscutibile.

Ecco perché fa riflettere la circostanza che dopo l’acquisto da parte di Elon Musk – l’uomo più ricco del mondo nel 2022 – si sia accesa una discussione planetaria sull’impatto che tale acquisto produrrà su Twitter che, secondo taluni, sarebbe destinato a diventare un mezzo di comunicazione di massa capace di garantire a chiunque più libertà di parola di sempre mentre, secondo altri, un mezzo di distruzione di massa capace di amplificare oltre ogni limite di sostenibilità umana e democratica le parole d’odio, le istanze razziste e xenofobe, le teorie complottiste e la disinformazione.

E il punto, naturalmente, non è se abbiano ragione i primi o i secondi o, magari, né i primi, né i secondi.

Il punto è che non è più accettabile che le vicende societarie di Twitter o di qualsiasi suo competitor nell’ecosistema digitale possano influenzare – non ha importanza neppure se in meglio o in peggio – la misura di una libertà fondamentale come quella di parola che è pietra angolare non più “soltanto” delle nostre democrazie, ma, ormai, della nostra società in tutte le sue componenti, dei mercati globali e della cultura planetaria.

La misura nella quale una libertà come quella di parola è riconosciuta o negata a miliardi di persone in tutto il mondo, non può essere funzione di chi, più ricco degli altri, compra nel supermercato digitale questa o quella piattaforma planetaria, né del suo modo – giusto o sbagliato che sia – di pensare e di guardare alle cose del mondo semplicemente perché la libertà, come gli altri diritti fondamentali, non sono, beni giuridici-economici mercificabili e scambiabili sui mercati internazionali.

I diritti e le libertà non sono in vendita né direttamente, né indirettamente.

Certo è sempre accaduto che chi compra una società editoriale detti poi la linea editoriale dei giornali che edita.

Ma le piattaforme delle quali stiamo parlando non sono editori, non si considerano editori, non vogliono essere considerati editori e non possono essere considerati editori per decine di ragioni diverse e, quindi, non può esserci un effetto automatico tra il cambio del ferroviere e il cambio della direzione del treno.

È arrivato il momento – e, anzi, forse, era arrivato già da tempo – che lo Stato si riappropri del ruolo che gli compete nel governo dell’informazione anche nella dimensione digitale: sta a Parlamenti e Governi stabilire cosa si può dire e cosa non si può dire anche online e sta a Giudici e Autorità indipendenti garantire che queste regole vengano rispettate.

E non ha importanza quanto sia difficile far rispettare certe regole in un contesto in cui l’informazione, le idee e le opinioni sono prodotte e condivise da miliardi di persone.

Se servono più Giudici, più Autorità, più competenze, più risorse, tecniche e economiche vanno trovate – eventualmente anche esigendole dai padroni delle ferrovie della comunicazione – perché è da questo che dipende in buona parte il futuro della nostra società: da quanto saremo capaci di mettere al riparo la dieta mediatica globale, la libertà di informazione e il diritti di critica e di opinione dalle cose dei mercati, delle borse, della finanza e dei singoli che si tratti di santi o briganti, di visionari o miopi, di filantropi o imprenditori senza scrupoli.

Una manciata di piattaforme digitali, ormai, che ci piaccia o non ci piaccia, sono diventate essential facilities democratiche e il governo dei contenuti che vi transitano non può restare oltre affidato alle regole scritte dagli avvocati delle società che le gestiscono, né all’esercito di moderatori umani e algoritmici chiamati a applicare queste regole.

Cambiare strada è faticoso, non esente da rischi – primo tra tutti quello di avere un ecosistema digitale, almeno all’inizio, più “tossico” in termini di informazione in circolazione rispetto all’attuale – e non è detto che funzioni ma è difficile anche solo far finta di non vedere che la strada che stiamo percorrendo lasciando che siano sostanzialmente i privati a decidere cosa si può dire o non dire online, porta inesorabilmente alla privatizzazione dell’intera società, alla sua riduzione nella dimensione di mercato e alla conseguente estinzione delle nostre democrazie.